Cultes Des Ghoules – “Spectres Over Transylvania” (2011)

Artist: Cultes Des Ghoules
Title: Spectres Over Transylvania
Label: Under The Sign Of Garazel Productions
Year: 2011
Genre: Black Metal
Country: Polonia

Tracklist:
1. “Spectres Over Transylvania”

“Beware! It’s the dark night closing in…”

In quel doloroso limbo sospeso fra la vita e la morte, fra la ricerca insonne di una nobile identità prima perduta e poi rivendicata ed il vagheggiamento di un passato glorioso mai rinnegato, le ali rotte dei Cultes Des Ghoules si innalzano da quell’apparente stasi temporale che li vede alieni in un mondo che muta, ingobbiti da solitudine e disprezzo mentre con distacco e rinnovato orgoglio si aggirano fra i merletti umidi ed erosi di un mastio in rovina: quel non-luogo musicale in cui i polacchi si muovono striscianti dal loro risveglio subisce a metà 2011 uno scossone, una coerente quanto evidente metamorfosi che li condurrà di lì a poco al primo capolavoro “Henbane, Or Sonic Compendium Of The Black Arts”, raggiungendo una forma corporea, concettuale ed estetica a tutto tondo che permetterà loro di esprimersi e flettersi sinistramente nella decade successiva in tutto il loro tetro splendore.

Il logo della band

Se già al debutto con Häxan”, nel 2008, l’impenetrabile formazione stupisce e ammalia con la sua formula saettante nella nebbia fatta di un rumoroso approccio che della cosiddetta old school ha solo i minimi termini e ben meno la sostanza, tra un istrionismo occulto di doveroso rimando ai Mayhem di “De Mysteriis Dom Sathanas” e fumosi sabba di matrice novantiana à la Mortuary Drape di “All The Witches Dance”, va pure ammesso che le grevi atmosfere solforose e la produzione prepotentemente lo-fi rischiano di soffocare ancora il fascinoso lavoro del trio, arginandolo nonostante ogni qualità evidente ad una pregevole band che del revivalismo ha fatto un’arma acuminata e che, tuttavia, con difficoltà avrebbe ottenuto una dimensione marcatamente personale sugli stessi binari; la mancanza di un affinamento avrebbe messo a rischio e chiuso via via su loro stesse le ambizioni e le potenzialità di una narrazione tanto malignamente fertile e bramosa d’indagare anche i più stretti anfratti del più remoto passaggio, posando lo sguardo su dettagli, tramestii, sussurri e passi tremolanti che con il rombare del debutto sarebbero stati colpevolmente sovrastati.
È dunque proprio con un EP, un formato che i polacchi in particolare useranno in modo estroso e quanto mai libero nel corso della loro carriera (non come contenitore di uno sperimentalismo volutamente recluso, bensì vissuto come racconto breve dalla regale dignità), che l’evoluzione verso qualcosa di definitivamente più personale e chiaro si delinea: il sodalizio firmato con il sangue fra i Cultes Des Ghoules e l’arte ingegneristica del connazionale M. dei Mgła viene stipulato proprio in occasione di “Spectres Over Transylvania” e andrà a caratterizzare da qui in avanti gli umori delle uscite, minori o meno, esaltandone ove necessario gli aspetti più fini, facendo emergere tutta la potenza moribonda e comunque non morta delle chitarre, fornendo il giusto palcoscenico ai gorgheggi invasati di Mark Of The Devil ed edificando i tetri saloni di una sinfonia dell’orrore in cui anche il più lieve scricchiolio assume nel silenzio il tono di un grido agonizzante, in cui una candela tremolante nel buio funge beffardamente da ristoro e tomba, al contempo, ad una moltitudine di svolazzanti creaturine diafane.
È quindi, forse inevitabilmente, fra le ominose ed ispiranti colline della Transilvania che il nuovo capitolo dei Cultes Des Ghoules anno 2011 ha luogo, in perfetta comunione con lo spirito Black Metal di morbosa fascinazione gotica e orrorifica, che non è perversa passione per il macabro fine a sé stessa bensì qualcosa che cela un’attrazione per il sinistro volto ad instillare un sentimento irrazionale di paura e timore, a perturbare l’ascoltatore dal suo stato di apatico intorpidimento facendo leva sul male drammaturgicamente rappresentato attraverso figure e immagini archetipali dai pallidi riflessi eburnei e avvolte nel nero più impenetrabile.

L’alba è lontana e i figli della notte suonano la loro dolce e tormentata musica: sale in cattedra un basso ipnotico di ellenica scuola Necromantia a scandire tempi ossessivi e malati, giustapposto ad una violenza sonora che, mai così dinamica, si dipana in costruzioni gracchianti e riff di un’efferatezza che porta alla memoria i primissimi parti dei Funeral Mist; l’occulto degli undead di Kielce è certamente ben dissimile dall’abisso totalizzante provocato dal circolo Norma Evangelium Diaboli, prediligendo alla soffocante e intricata teologia pandemonica un più subdolo sentimento di folkloristico terrore, ma alcune soluzioni di “Devilry” e “Salvation” si accostano ciononostante -quantomeno per via di probabilissimi progenitori comuni- alle fitte trame scelte dal chitarrista Machine nei 25 minuti di mini-album incanalando tutto il rancore di una veglia secolare. Le vocals fuori di senno accolgono poi con malignità il povero vagabondo, sputando ora con berci ora con impostato tono teatrale vicende intrise di insondabile stregoneria in metatestuale concordanza con le prestazioni sopra le righe di Attila Csihar nell’“Anno Domini” dei suoi Tormentor come nel già citato secondo capitolo dei Mayhem, intraprendendo fra i singulti una narrazione che vede nei riferimenti dichiarati un punto di partenza, nella doverosa citazione un’arte priva di malizia, nell’utilizzo di sample un devoto tributo: quello che si districa incastonandosi in una tradizione plurisecolare che nasce dalle antiche leggende popolari degli uomini-vampiro e si evolve in infinite proposizioni letterarie e figurative sono difatti le gesta di un individuo che ben poco condivide con l’eroico, edonista e byroniano Lord di Polidori, e in contrasto molto ha invece del solitario e celebre aristocratico decaduto di Bram Stoker, dell’abietto deviante graffiato di nero su bianco di Murnau o dello ieratico principe della notte di Herzog.
Ampliando ulteriormente quella capacità nitida di strutturare il brano in modo progressivo senza eccessi formali, eccentrico e suggestivo senza malizia di stile -capacità che, fin dal debutto su full-length di stregoneria medievale ed infanticidio precedenti il titanico brano di quasi mezz’ora in analisi, è ben manifesta nei brani sopra alla decina di minuti-, scenari terribili e grotteschi scorrono davanti agli occhi, evocati da partiture tanto pregne di potenza visiva quanto coadiuvate da una sinergica impalcatura sonora in cui gli strumenti cospirano nefasti in un’orchestra abominevole e il curato compendio di minuzie e campionature scorre perfettamente integrato nello svolgersi della storia: stralci classici di polverose colonne sonore dimenticate e non, acute ed insane risate femminee, austeri cori monastici che emergono quando gli amplificatori ronzanti si chetano, il tremolante e argenteo grattare di un sitar di afflato Popol Vuh collaborano con trasporto e gravità, tutti – non uno escluso o meno rilevante al compito, intonando un ultimo inno al demonio.

La volta celeste, concluso l’ascolto, riluce confusamente venendoci incontro e poi perendo – il tempo scorre nella cecità di infinite notti, i torrenti continuano a fluire senza che anima viva li osservi: anche il dogma per cui la morte dovrebbe essere l’unica sorte crudelmente certa viene messo in discussione infine e la conclusione assume i tratti suadenti della liberazione e del sorriso. Le cronache di una perenne dannazione, l’insaziabile brama di vendetta e sangue, torture che ciclicamente si protraggono indefesse nei secoli dei secoli: i Cultes Des Ghoules di “Spectres Over Transylvania” seminano proprio qui i bulbi avvelenati e corrotti di quella vintage black magic che di lì a poco si concretizzerà nel compendio sonoro di nere arti, instillando finanche quel piglio drammatico e gravido di tensione che verrà accentuato al parossismo nel monumentale “Coven, Or Evil Ways Instead Of Love”, distillando però già qui buona parte di quel suono tanto agognato che evoca da dieci anni profonde e spietate artigliate solcate sul fondo di una bara e il fetore sconcertante di una tomba aperta e violata.

Lorenzo “Kirves” Dotto

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